Età anagrafica ed età biologica nella donna: le indagini da fare

L’età in una donna è un fattore determinante quando ci si riferisce alla sua capacità riproduttiva. Si parla di “orologio biologico” per evidenziare come il passare del tempo incida negativamente sulla capacità naturale di ottenere una gravidanza. Fisiologicamente l’apice della fertilità è raggiunto dalla donna intorno ai 25 anni, per poi subire un lento ma inesorabile declino che si accentua dopo i 35 anni. A differenza del maschio, alla base della diminuita fertilità femminile vi è l’incapacità dell’ovaio di replicare e rinnovare i propri ovociti. Se alla nascita, il patrimonio di uova è di circa 1,5 milioni, al menarca, ovvero alla comparsa del primo ciclo mestruale, ne restano circa 300 mila che costituiscono la riserva per tutta la vita riproduttiva. Ad ogni ciclo ovarico, a fronte di un follicolo che diventa dominante selezionando l’ovocita pronto ad essere fecondato, centinaia di follicoli iniziano a maturare ma non completano il processo, perdendosi per sempre. All’età di 37 si stima che il patrimonio follicolare sia ridotto a circa 25 mila unità e la riduzione accelera, per arrivare alla menopausa, quando il patrimonio è sceso sotto i mille follicoli. Nel contempo, inizia un processo di invecchiamento degli ovuli, per continui processi di alterazione e riparazione del DNA. Queste alterazioni determinano una riduzione della capacità delle uova di essere fecondate ed un aumento degli embrioni con alterazioni genetiche, che esitano il più delle volte in aborto. Per questo, la medicina della riproduzione dedica una particolare attenzione alle donne oltre i 35 anni. Come confermato delle statistiche, il fattore età è una discriminante importante: nei trattamenti di fecondazione assistita i tassi di successo superano il 45 per cento nelle donne con meno di 30 anni, si dimezzano verso i 35 anni e crollano sotto al 5 per cento dopo i 43 anni. Tuttavia, vi è una grandissima variabilità individuale con riduzione della fertilità diversa da una donna all’altra. Al di là del diverso patrimonio follicolare iniziale e della differente velocità di esaurimento, un ruolo fondamentale è quello della predisposizione genetica e dello stile di vita. Non esistono attualmente markers predittivi utilizzabili in modo sicuro per individuare la fertilità residua di una donna. Essenzialmente, l’attenzione si concentra sul profilo ormonale della paziente, sul conteggio della riserva ovarica, ma è possibile anche un importante contributo futuro dalla genetica. Le prime indagini prescritte sono in genere i dosaggi ormonali. Di norma, si effettua un prelievo di sangue per valutare i livelli degli ormoni prodotti dall’ipofisi (FSH) e dall’ovaio (17 beta estradiolo, ormone antimulleriano e Inibina B). L’FSH, conosciuto come ormone follicolostimolante, è deputato alla progressione dei follicoli e alla selezione di quello dominante, con conseguente rialzo del 17 beta estradiolo, che ne blocca il rilascio. Sembra che livelli di FSH >15 UI/l rappresentino valori predittivi per una ridotta risposta ovarica, nelle tecniche di procreazione assistita. Il 17beta-estradiolo deve essere sempre dosato in associazione all’FSH nei primi 5 giorni del ciclo mestruale. E’ prodotto dai follicoli ovarici, è regolato e regola l’asse con l’ipofisi e l’ipotalamo. Bassi livelli, con aumento dei valori di FSH, possono indicare una riduzione della riserva ovarica, fino ad uno stato di menopausa. Di contro, elevati livelli di 17 beta estradiolo e bassi degli ormoni ipofisari non sempre sono un segnale di una buona funzionalità ovarica: possono essere indotti da terapie ormonali, cisti follicolari e tumori ovarici. L’ormone antimulleriano (AMH) e l’Inibina B sono markers più recenti della riserva ovarica. Prodotti dalle cellule della granulosa, regolano lo sviluppo e la maturazione dei follicoli. Il riscontro di bassi livelli è correlato ad una diminuizione significativa della riserva di ovociti. Questi ormoni possono essere utili per prevedere il rischio di un’iporisposta o di un’iperstimolazione ovarica e per la qualità ovocitaria e i tassi di successo nei protocolli di procreazione assistita, anche se la sensibilità predittiva è ancora in discussione. Livelli di AMH inferiori a 1 ng/ml sembrano predire, quasi certamente, una scarsa risposta ovarica. Valori critici dell’Inibina B (minori di 45 pg/ml), presi singolarmente, sembra abbiano, invece, uno scarso valore prognostico. A differenza dei precedenti ormoni, l’AMH e l’Inibina B restano costanti nelle varie fasi del ciclo ovarico e non sono influenzati da patologie o farmaci. La valutazione ecografica è volta a valutare il numero di follicoli antrali e il volume ovarico. La conta dei follicoli deve avvenire nei primi 5 giorni del ciclo mestruale. Si è osservato che il numero di piccoli follicoli antrali con diametro tra 2 e 6 mm si riduce con l’età, mentre il numero di quelli con diametro tra 7-10 mm resta costante. La presenza di meno di 5 follicoli antrali, in entrambe le ovaie, sembra essere strettamente correlato ad una riduzione della riserva ovarica. La misurazione del volume ovarico è considerato un precoce indicatore della riduzione della fertilità in quanto parametro indiretto del numero residuo di follicoli antrali. Volume delle due ovaie inferiore ai 6 cm cubi è considerato un parametro critico. L’ecografia consente inoltre di valutare l’invecchiamento dell’utero per la presenza di fibromi, adenomiosi (endometriosi dell’utero), polipi e infiammazioni endometriali o un aumento delle resistenze nelle arterie uterine. Nuovi orizzonti per valutare l’età fertile sono forniti dalla genomica, scienza che studia la predisposizione genetica alle malattie. Sono in corso molti studi volti ad identificare i geni che determinano l’età del menarca e della menopausa e di conseguenza dare una previsione sulla fertilità femminile. Stabilito con certezza il ruolo di questi geni e la loro interazione con i fattori ambientali, si potrà sviluppare una diagnostica molecolare che permetta alle donne e alle coppie di programmare meglio la loro vita riproduttiva. Tutte queste analisi si combinano con quella che è la storia della donna che si sottopone a un percorso di procreazione assistita, ovvero precedenti malattie ed eventuali tentativi falliti, al fine di individuare la terapia più appropriata. Lo screening genetico pre-impianto (cosiddetto PGS), con l’analisi del globulo polare, permette, infine, di scartare gli ovociti con aneuploidie, ovvero, con un alterato numero di cromosomi. Solitamente il numero di ovociti con difetti genetici è maggiore nelle donne in età avanzata, ma potrebbe essere elevato anche in donne giovani con età biologica avanzata. La PGS aumenta i tassi di gravidanza: recenti studi hanno rilevato che, nelle donne con più di 40 anni, è possibile passare da un tasso di gravidanza del 5 per cento, a oltre il 15 per cento per transfer.